venerdì 18 dicembre 2009

Alba

La notte e il giorno erano ancora abbracciati. E con tutta probabilità lo sarebbero stati ancora a lungo. La mattina iniziava con un cielo immobile e grigio. Qualche sfumatura più chiara, verso la linea dell’orizzonte, segnalava l’imminente sorgere del sole.

Roberto Tropea si era alzato di malavoglia. Stanco, come sempre. In preda all’ansia. Stava già pensando come sarebbe andata la giornata di lavoro. E la cosa lo metteva ancora di più di cattivo umore.

Faceva il giornalista, o meglio era quella la professione con cui si presentava. Nella realtà Tropea lavorava in uno di quei portali del web che erano diventati un po’ una specie di bidone dell’immondizia. Si scrive poco, anzi nulla. Copia e incolla da altri siti d’informazione. Puntando sul peggio per fare "traffico". Stupri, tasse, cronaca nera, pettegolezzi.

"E’ questo sarebbe il nostro futuro digitale", pensava – ogni mattina, Tropea. "Fanculo il web e questo paese di merda", era la considerazione che – sempre uguale - seguiva.

La malattia mentale, il vuoto, la paura accompagnavano Tropea fin dall’adolescenza. Uno stato, un viaggio, meno angosciante di quello che immaginano i sani. Divertente nel nulla, allegro per chi lo vive. Un'allegria irrazionale, illogica. Nel mondo dei normali i gesti quotidiani – camminare, respirare, spostare un oggetto – sono il risultato finale, non pensato, d’impulsi nervosi. Per Tropea, e per chi come lui si muove sulle dimensioni del dubbio, è diverso. Un oggetto spostato sulla scrivania, se rompe l’alienamento con altri, può generare ore e ore d’angoscia. Una scatola messa storta, una macchietta sulla camicia, sono segnali funesti.

Ma era pure un dramma quotidiano per Tropea. Forse un compagno. Forse.

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