lunedì 14 dicembre 2009

Alito

La strada, alla luce del mattino, sembrava quasi bella. Nella follia visibile che disegna la frenesia d’inizio giorno, quel grigio era rassicurante, un grande utero accogliente. Rodrigo con piglio deciso, inforcata la sua lucida auto – protuberanza esistenziale da oramai venti anni –, si dirigeva verso l’ufficio. Al lavoro.

La radio agitava l’aria con le stesse notizie, sempre uguali. Faceva caldo – a luglio a Milano ha sempre fatto caldo – e un radio giornale raccontava come difendersi: vestirsi leggero, bere molto, evitare di esporsi al sole.

Intanto, inesorabilmente, con un episteme, che solo un impiegato può realmente comprendere, la distanza si accorciava. Il motore, dopo frenate e ripartenze, ripartenze e frenate, stava per finire la prima parte dei suoi compiti quotidiani.

Traffico permettetendo, ci voleva ancora un bel quarto d’ora abbondante. Troppo per Rodrigo, infastidito dal proprio alito pesante che, per un curioso gioco di correnti, rimbalzando contro il volante, finiva sotto il naso.

Aveva provato tutte le soluzioni offerte dalla scienza moderna. Dentifrici mentolati, colluttori alla varechina, spazzolini aspiranti. Inutile. Dopo un’effimera freschezza, l’impasto ritornava, più forte di prima. Un sapore strano, che è anche odore. Antico, forse un po’ esotico, un ricordo di cucina povera.

Un problema. A Rodrigo tutta questa poesia non piaceva. Schiacciava sull’acceleratore. Doveva uscire al più presto dalla protuberanza a quattro ruote.

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