martedì 15 dicembre 2009

Il peto, il lavoro

Troppo. Quel giorno aveva mangiato troppo. Enrico Uboldo cadeva spesso nell’errore. Ma si sa. La pausa pranzo, i colleghi. Si parla, si discute. Pettegolezzi, sfottò. E’ facile non accorgersi, esagerare con il cibo e le bevande. Peraltro di scarsa qualità.

Enrico Uboldo, in arte impiegato di quinto livello addetto all’amministrazione, era assonnato. Ma, soprattutto, alle prese con un insistente meteorismo. Una tortura. Fatta di spasmi del ventre, di contrazioni anali per evitare per situazioni imbarazzanti. Rivisitazioni dei delicati rapporti sociali e gerarchici dell’ufficio.
La minaccia di un peto, anzi due, tre. Uno in fila all’altro. Il breve tratto, che separa la scrivania dal casso, diventa una lunga autostrada. Metri che si trasformano in chilometri.

In quel turbine gassoso e di freddo sudore, Enrico Uboldo, trovò la forza di fare qualche considerazione sulla professione.

Il peto – considerò – è l’unica attività fisiologica che può essere fatta in comunità. E, a parte qualche mugugno, è generalmente accettata. O almeno tollerata.

Inoltre entra in gioco una serie corposa di decisioni, frutto di elaborati percorsi logico-deduttivi.

La faccio o la tengo? Di quanto mi devo allontanare per passare inosservato? E il passaggio più impegnativo: in quale percentuale è necessario ridurre la pressione per attenuare la sonorità? Che per un maleducato esibizionista potrebbe essere: quanto è necessario spingere per avere un suono a tutto tondo?

"Purtroppo, o per fortuna, il mio lavoro richiede uno sforzo intellettuale inferiore", fu la conclusione di Enrico Uboldo.

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